In
Italia vive una popolazione di “invisibili”.
Stranieri
che lavorano nelle campagne,
lontano dagli occhi dei centri
abitati, spesso alloggiati in
tuguri
fatiscenti, sfruttati e mal
pagati da
caporali
e imprenditori nostrani. Da nord
a sud, il loro impiego nelle
campagne
è capillare. È anche grazie alle
loro braccia se certi prodotti
arrivano sulle nostre tavole,
eppure la loro vita resta
confinata nel silenzio.
Secondo il primo
Rapporto su caporalato e
agromafie
realizzato da
Flai Cgil,
si tratta di circa
700mila lavoratori
tra regolari e irregolari, di
cui circa
400mila
coinvolti in forme di
caporalato.
Braccianti che si riversano ogni
anno nella campagne in arrivo da
altre nazioni o spostandosi
internamente, tra le regioni
italiane, per soddisfare i
picchi della produzione e della
lavorazione di prodotti
agro-alimentari su tutta la
penisola. Spesso protagonisti,
loro malgrado, di storie di
vulnerabilità e sfruttamento, al
limite della
schiavitù.
NON SOLO
SUD: SFRUTTATI DA BOLZANO ALLA
TOSCANA.
Diversamente da quel che si può
credere però lo sfruttamento non
riguarda solo il mezzogiorno, ma
anche le zone più floride del
nord, come
Piemonte,
Lombardia,
provincia di
Bolzano,
Emilia-Romagna
e
Toscana
(guarda la mappa completa).
In tutti questi territori, come
in
Campania,
Basilicata,
Puglia,
Calabria
e
Sicilia,
i ricercatori della Flai Cgil
hanno scovato datori di lavoro e
imprenditori che truffano o
ingannano i lavoratori
stranieri, non corrispondendo
loro i salari maturati, o
facendoli
lavorare
in nero,
accompagnando il trattamento con
minacce più o meno velate e
forme di violenza psico-fisica
(manifeste o paventate).
In Italia il mondo del
caporalato si è evoluto, lo
racconta nel rapporto
Yvan Sagnet,
portavoce dei braccianti che
hanno organizzato lo sciopero di
Nardò
(Lecce)
nell’estate del 2011 e oggi
impegnato nella Flai-Cgil in
Puglia: “Ci sono i caporali e ci
sono i sotto-caporali. Perché i
caporali non possono gestire
tutto. Il caporale può avere
quattro o cinque campi di
raccolta e manda i suoi
assistenti a gestire i
lavoratori. Ha una squadra, ha
gli autisti, degli assistenti,
ha i cuochi. A Nardò c’era il
‘capo de capi’, era un tunisino.
Poi c’erano altri caporali che
lavoravano per lui. Nell’agro di
Nardò erano tra 15 e 20 e
controllavano tra i 500 e i 600
lavoratori”.
PAGHE DA FAME: 4 EURO
L’ORA. Le paghe per i
lavoratori sono però sempre da
fame. “Un bracciante agricolo
che lavora nelle campagne di
Foggia in Puglia, a Palazzo San
Gervasio in Basilicata o a
Cassibile in Sicilia verrà
pagato
a cottimo,
ovvero
3,5 euro
il cassone
(per la raccolta dei pomodori),
mentre verrà pagato
4
euro l’ora
nelle campagne di Saluzzo nel
Piemonte, di Padova, nel Veneto
o a Sibari in Calabria per la
raccolta degli agrumi. Il tutto
in nero, su intere giornate
comprese tra 12
e 16 ore di lavoro
consecutive a cui vanno
sottratti: i 5 euro di tasse di
trasporto, 3,5 euro di panino e
1,5 euro di acqua da pagare,
sempre al caporale”.
MAFIA E RICICLAGGIO.
A questa situazione di
sfruttamento si somma la
voracità dei
gruppi
mafiosi.
Il caporalato, che è entrato nel
codice penale solo nel 2011, è
infatti un “reato
spia”
di infiltrazioni criminali nel
settore. Una presenza
significativa, ma ancora quasi
del tutto inesplorata a livello
giudiziario. Si stima che il
giro d’affari connesso alle
agromafie
sia compreso
tra i 12
e i 17 miliardi di euro,
il 5-10% di tutta l’economia
mafiosa. Quasi tutto giocato tra
la contraffazione dei prodotti
alimentari e il caporalato. Solo
la contraffazione è cresciuta
negli ultimi dieci anni del
128%, per un valore di 60
miliardi di prodotti che ogni
anno vengono commercializzati
nel mondo come falso Made in
Italy.
“L’agricoltura è anche uno
dei settori prediletti per il
riciclaggio
dei soldi dalle organizzazioni
criminali tradizionali – scrive
Yvan Sagnet – Ad esempio
l’agricoltura foggiana subisce
forti condizionamenti da parte
della
camorra.
Durante la stagione agricola
centinaia di camionisti partono
quotidianamente dalla Campania
verso le campagne foggiane,
affittano le terre ai contadini
con il cosiddetto fenomeno del
“prestanome”, e trasportano la
merce verso le imprese del
salernitano”.
DAL CAMPO ALLA NOSTRA
TAVOLA, LA FILIERA “INQUINATA”.
Le mafie si occupano anche dei
mercati
dell’ortofrutta,
infiltrando la grande
distribuzione. “Le inchieste
analizzate in quest’ultimo anno,
svolte in particolare dalla
Direzione
distrettuale antimafia di Napoli,
hanno visto implicate imprese di
tutto il sud Italia con
ramificazioni anche nel nord del
Paese e hanno disvelato
l’esistenza di un sistema di
gestione dei grandi mercati
agricoli nazionali pesantemente
influenzati dalle organizzazioni
mafiose”, scrive nel rapporto
Maurizio
De Lucia,
magistrato della Direzione
nazionale antimafia.
Purtroppo neppure le nuove, e
importanti, misure varate nel
settembre del 2011 (introduzione
del reato di caporalato) e nel
luglio del 2012 (concessione del
permesso di soggiorno ai
lavoratori che denunciano i
propri sfruttatori), sono
riuscite ancora ad incidere
significativamente sulla grave
situazione delle campagne.
Eppure i dati rilevati sono già
significativi. Da gennaio a
novembre del 2012 sono
435 le persone arrestate
per riduzione in schiavitù ,
tratta e commercio di schiavi,
alienazione e acquisto di
schiavi. Dall’entrata in vigore
della norma che istituisce il
reato di caporalato le persone
denunciate o arrestate sono solo
42. La metà degli arresti al
centro-nord.
COSTO DEL LAVORO E CRISI.
“Parliamoci chiaramente, per gli
imprenditori il costo del lavoro
italiano è altissimo. Ciò non
giustifica l’assunzione di
personale in nero, ma è indubbio
che questo fenomeno esiste
proprio per sfuggire alle maglie
di questo meccanismo,
soprattutto in questa grave
crisi”. Il Procuratore di
Foggia, Vincenzo Russo, non usa
mezzi termini. “È come
l’evasione fiscale. Quanto più
alta è la tassazione, tanto più
i soggetti sono invogliati ad
evadere. Questo è indubbio.
Quindi, se il costo del lavoro
diminuisse, probabilmente
diminuirebbero anche questi
fenomeni”.
da Il Fatto Quotidiano
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Carlo Anibaldi